L’ultimo restauro della Cappella Maggiore si data al 1946/47 e avvenne nell’immediato dopoguerra, ad opera della ditta Benini, una delle più attive nel campo della pittura murale, in Toscana.Di questo restauro esiste solo una documentazione fotografica del prima e del dopo, con qualche scatto preso anche durante l’intervento, grazie ai quali possiamo vedere alcune prove di pulitura allora eseguite che ci danno la misura delle condizioni della pittura a quel tempo, molto più sporca di quanto abbiamo trovato noi all’inizio del nostro intervento.Da allora la cappella non aveva ricevuto alcuna cura conservativa; essendo più alta rispetto al piano di calpestio delle navate era passata quasi indenne anche dall’alluvione del 1966, che aveva interessato solo il basamento dipinto a finti marmi.Solo al momento in cui, costruendo il ponteggio, si è potuto accedere ad una visione ravvicinata, abbiamo potuto scoprire uno stato di avanzato degrado, che da terra non appariva in tutta la sua gravità ed estensione. Questo era il frutto degli effetti del deposito sulle pareti dei vari inquinanti presenti nell’aria nei decenni che vanno dalla metà del secolo scorso fino al 2005, combinati con le condizioni climatiche della cappella, certo non ideali: la struttura architettonica non preserva infatti le pareti né dal caldo e né dal freddo e i valori dell’umidità relativa dell’interno sono sempre attorno al 70%.Il fenomeno della solfatazione, ad esempio, raggiungeva una diffusione e una gravità pari a quelle condizioni che tanto ci impressionavano nelle fotografie tratte dal Capitolo di San Marco a Firenze prima dell’intervento degli anni Sessanta che diede l’avvio alla metodologia ammoniolbario, nota come metodo desolfatante, e messa a punto allora dal prof. Ferroni del dipartimento di Chimica-Fisica dell’Università di Firenze e dal restauratore Dino Dini, capo di una delle équipe più famose e attive a Firenze in quegli anni. Si trattarono allora le pitture prima con soluzioni di ammonio carbonato e poi, dopo un congruo periodo di tempo, con bario idrossido, per provocare la trasformazione chimica del gesso in un composto stabile.
Cospicuo, sulle pareti della Cappella Maggiore, era anche il fenomeno del sollevamento della pellicola pittorica, in special modo delle campiture verdi, ma un po’ di tutti i pigmenti a base di terre, quindi anche certi gialli e certi rossi, sensibili all’umidità ambientale e quindi alle escursioni termiche. Si può dire, ad esempio, che 1’80% delle campiture verdi appariva con evidenti esfoliazioni e rigonfiamenti.
Tutte le pareti erano poi percorse da fessurazioni, chiuse all’epoca del restauro dei Benini, ma riapertesi negli anni successivi. Questo fatto era un segno della “vitalità”, per così dire, delle rotture nell’intonaco che dai primi sondaggi perevano essere anche molto profonde e interessare perciò la muratura portante. Nei pressi delle fratture vi erano spesso anche aree di intonaco di supporto malferme.
In talune zone erano presenti anche dei segni evidenti di abbondanti infiltrazioni d’acqua provenienti dal tetto e dalle pareti; nel primo caso per la percolazione da vecchie rotture del manto di copertura, nel secondo perché passanti attraverso le fessurazioni delle pareti.La Cappella Maggiore è molto più alta delle altre nel transetto e quindi per buona parte le sue mura sono direttamente esposte agli agenti atmosferici e quindi indifese, in qualche modo, rispetto all’ acqua piovana
In un caso invece la presenza della cappella adiacente è stata causa di degrado, in quanto l’ingresso lungo lo spiovente del tetto vicino aveva fatto sì che l’acqua si infiltrasse nell’area sopra le volte della cappella più bassa, scivolasse lungo l’estradosso e si infiltrasse nella parete in comune con quella della Cappella Maggiore. Il prodotto di questo lungo viaggio era una larga infiltrazione sulla parete nord con la conseguente presenza sulla superficie del colore di sali solubili.
L’intervento
Il nostro intervento doveva risolvere non solo la presenza di strati superficiali che modificavano la connotazione cromatica della pittura, ma era assolutamente necessario per svolgere un’ efficace opera di conservazione, eliminare il solfato di calcio che poteva costituire, se non rimosso, una futura fonte di degrado. Così abbiamo applicato la metodologia desolfatanre: ammonio/bario. Non senza prima però aver curato che la pellicola pittorica fosse ancorata al supporto con una paziente e meticolosa opera di preconsolidamento.
In alcune aree con particolari problemi, come le vele della volta dipinte in azzurrite, ma completamente scurite da un vecchio fissativo alteratosi in una patina marrone, siamo ricorsi invece ad una pulitura a laser per poter mettere in luce la pellicola pittorica originale, senza danni per la sua integrità.
Per quanto riguarda la lettura finale dell’ immagine della decorazione pittorica, abbiamo deciso di fare salve le integrazioni pittoriche del passato laddove non ci si trovasse di fronte a ridipinture sovrapposte all’originale, ma antichi rifacimenti di aree ormai perse, curandone semmai l’armonizzazione cromatica all’originale pulito. Abbiamo invece operato secondo i moderni criteri di riconoscibilità per le nuove integrazioni sulle abrasioni e sulle nostre stuccature ricostruibili per forma e colore.
Mariarosa Lanfranchi
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